I Frati Cappuccini in Turchia dal 1857 
di Egidio Picucci *

Il paese ponte. Il recente viaggio di Benedetto XVI in Turchia ha acceso i riflettori su questo paese-ponte tra Europa e Asia, illuminando varie realtà, tra cui la situazione in cui si trovano i pochi cattolici che vi restano e lasciando in ombra, almeno in parte, coloro che li assistono. Tra loro ci sono - e da antichissima data! - i cappuccini. L'antichissima data è il 1587, quando l'ambasciatore di Francia a Istanbul, Jâcques Savary, pregò il re Enrico III di far pressione sul papa Sisto V perché mandasse i buoni uomini oppure i cappuccini ad assistere le comunità cristiane della città, in sostituzione dei gesuiti, morti di peste. I buoni uomini erano i Padri Minimi, così detti dal bon homme affettuoso con cui Luigi XI aveva chiamato san Francesco di Paola, loro fondatore. Enrico III, o più esattamente sua madre Caterina de' Medici, amica dei cappuccini, scelse questi ultimi e fece perorare la causa dal suo ambasciatore presso la Santa Sede.

Del gruppo cappuccino che si incamminò verso Istanbul faceva parte anche san Giuseppe da Leonessa, il quale, a riprova che la missione non era stata improvvisata come la precedente del 1551, cercò di familiarizzare con le lingue tedesca, greca e turca. Propose anche alcune osservazioni metodologiche per l'avvicinamento dei musulmani, osservazioni che poi completò in loco con giudizi che si direbbero posteriori al Vaticano II. La missione durò appena un anno e mezzo, ma il lavoro dei missionari fu intenso, rivolto non solo all'assistenza della "magnifica comunità cristiana" d'un tempo (ridotta poi con l'arrivo dei turchi nel 1543), ma anche a quella degli schiavi sfruttati nelle case signorili, a bordo delle galere, negli arsenali di Hasim Pascià. Particolare impegno misero nell'ostacolare il degiscirme, cioè la conversione di fanciulli cristiani all'islam e destinati ad infoltire le file dei famosi giannizzeri.

I firmani meritati. I missionari lavorarono con tale impegno e tale rispetto che il sultano concesse loro vari firmani (permessi) che li autorizzavano a muoversi liberamente per il paese. Anche se questo non voleva dire che potevano evangelizzare la gente, era sempre un fatto insolito, mai concesso prima a nessun religioso cattolico; erano previste anche pene severe per chi recasse loro "qualche travaglio": i cappuccini venivano definiti persone che "appartengono a un ordine religioso che cammina dritto nella fede". Nei firmani si parla esplicitamente dei cappuccini francesi, succeduti a quelli italiani nel 1625 per interessamento di padre Giuseppe de Tremblay (l'eminenza grigia) e del cardinale Richelieu. I religiosi transalpini restarono in Turchia fino alla rivoluzione francese, sostituiti dai confratelli italiani, i quali, a loro volta, diminuiti a causa delle varie soppressioni, richiamarono i francesi nel 1881. La presenza nell'Est turco cominciò grazie alla richiesta di missionari che Abbas il Grande, scià di Persia, fece a papa Clemente VIII nel 1604, e alla medicina che i cappuccini studiavano come "passaporto" per entrare in zone altrimenti irraggiungibili. Tra i vari religiosi che raggiunsero Aleppo e la Persia, c'erano anche alcuni cappuccini francesi, guidati da padre Francesco da Provius. Dopo la morte dello scià, essi dovettero lasciare la Persia e, nel viaggio verso Aleppo, dov'era la sede della custodia siro-mesopotamica, si fermarono con una carovana a Diyarbakir (l'antica Amida), dove padre Giambattista guarì il fratello del pascià locale. La città lo portò in trionfo e gli mise a disposizione una casa che fu adattata a convento. Fu l'unico dono accettato, perché le offerte in denaro furono impiegate dai missionari nel rinnovamento dell'acquedotto cittadino, fonte di tante malattie. La conversione del vescovo nestoriano mons. Egamaon per opera di padre Giuseppe da Reuilly fu l'occasione per aprire una missione a Mardin (1683) che fu chiusa ai primi del '700, travolta da un'incontrollabile ondata di persecuzioni che imposero la chiusura anche della missione di Diyarbakir. In compenso, nel 1841 ne fu aperta un'altra a Urfa, affidata ai cappuccini spagnoli rifugiati in Italia per i moti rivoluzionari scoppiati nella loro patria in quegli anni: furono accolti benevolmente dalle autorità e dalla gente, ammaliata dall'immagine della Divina Pastora che questi cappuccini spagnoli portavano sempre con sé. Da Urfa fu possibile riaprire la missione di Mardin, dove la solita specializzazione in medicina - che i missionari chiamavano opera "benedetta da Dio" - spalancò tutte le porte e consentì perfino l'apertura di una scuola assolutamente gratuita, anche perché la gente viveva in una spaventosa miseria. "Tutti i nostri arnesi - scrissero i missionari - si riducono a un vecchio calice, ormai inservibile, a un camice di sottilissima cotonina, a una pianeta di color violetto e di una quasi bianca. Le altre suppellettili, come sarebbe tavoli e letti, si concretizzano nel nulla, né c'è speranza che le cose cambino. Il popolo offre il più vero ritratto della miseria: i masnadieri infestano la campagna, impediscono l'agricoltura e le imposte gravissime dei magistrati hanno distrutto il commercio, tanto che la gente si nutre col seme di cotone, contraendo gravissime malattie, senza contare gli oltre 5.000 turchi e cristiani che sono morti sulle pubbliche vie".

Apostolato e presenza. Fortunatamente le cose cambiarono e la missione fu elevata a prefettura apostolica, affidata a padre Giuseppe da Burgos, il quale aprì una scuola per ragazze - un autentico miracolo per i tempi -, costruì una chiesa dedicata all'Assunta e riaprì la missione di Diyarbakir. Morì di tifo qualche tempo dopo e gli succedette padre Nicola da Barcellona, che - sempre grazie alla famosa medicina "benedetta da Dio" - allargò la missione a Beregik, dove 80 famiglie si convertirono al cattolicesimo, insieme al vescovo giacobita. Nel 1845 padre Filippo Maria da Bologna, dopo sei anni di missione in Georgia, viene espulso e passa con gli altri missionari in Turchia, dando inizio alla missione di Trebisonda, di cui fu prefetto apostolico dal 1852 al 1881. L'arrivo di altri missionari italiani consentì l'apertura di una casa a Malatya, l'antica Melitene, dove fu costituito un manipolo di cattolici a cui si unirono subito (1867) quasi tutti gli abitanti di Karput, la cittadina montana in cui durante le crociate era stato tenuto prigioniero re Baldovino II. Identica cosa avvenne con la gente di Mamouret-ul-Aziz, dove padre Angelo si stabilì, protetto dall'ambasciatore francese di Costantinopoli contro la tracotanza dei metodisti americani. Karput divenne il centro d'irradiazione di un apostolato che raggiunse decine di villaggi e consentì di costruire una nuova casa e un nuovo convento a Mardin, nonostante le difficoltà derivanti dalla carestia e dalle incursioni dei curdi. Dopo la morte di padre Angelo (1886), la missione si estese nei dintorni di Diyarbakir, e precisamente a Kirtebel, dove vivevano 200 famiglie cristiane, metà ortodosse e metà giacobite. I missionari, pur di poter esservi presenti, comprarono alcune vigne abbandonate e costruirono una casa, punto d'appoggio per quando si recavano a lavorarvi. La gente prima si chiese il perché di quella presenza, poi cominciò a frequentarli e, in capo a qualche anno, venti famiglie chiesero di passare al cattolicesimo. I "piccoli passi" con cui la missione era cominciata avevano consentito un lungo cammino: la Mesopotamia era costellata di chiese e di conventi, per cui si imponeva una maggiore presenza di missionari che padre Giambattista da Castrogiovanni - antico nome di Enna - chiese ai superiori generali, consigliando di mandare cappuccini francesi: i turchi non amavano eccessivamente gli europei, ma avevano un sacro rispetto per i "franchi", che esercitavano anche un protettorato su tutti i cristiani. La proposta fu accolta e furono mandati i cappuccini di Lione. Si chiudeva, così, un cerchio: la missione mesopotamica, iniziata dai religiosi francesi, risuscitata da quelli spagnoli e sostenuta dagli italiani, tornava ai francesi.

Il canto del cigno. Fu il canto del cigno. Nel 1893 cominciò una feroce persecuzione che, nel giro di poco più di un anno, distrusse 298 villaggi, 120 chiese e 6 conventi; furono uccisi 35 sacerdoti e 23 mila cristiani. Fu un'ecatombe che interessò anche le missioni di Urfa e Malatya, risparmiando solo quella di Mardin, grazie all'azione energica di padre Daniele da Manoppello. Molti cristiani - si dice diecimila - furono salvati dai missionari che li accolsero nelle chiese e nei conventi: per questo alla fine della persecuzione il governo turco mandò loro un telegramma di ringraziamento e una consistente somma di denaro! Strano comportamento della politica che tira il sasso e nasconde la mano: dopo aver permesso i più assurdi massacri, per scagionarsi premiò quelli che le avevano salvato la faccia! Diverso il comportamento della Francia che decorò la missione di Diyarbakir e favorì la rinascita delle altre, dove furono riaperte case, chiese e scuole, frequentate da novemila allievi fino a che la guerra mondiale travolse tutto. Dalle ceneri sono risorte le missioni del Sud: Mersin, Iskenderun, Adana e Antiochia, vive e operose. Ma qui inizia la presenza dei cappuccini di Parma, non dimenticando che la grande figura di padre Filippo Maria da Bologna a metà ottocento sembra anticipazione profetica dell'attuale comune responsabilità dei cappuccini dell'Emilia- Romagna in terra di Turchia.

*tratto da www.messaggerocappuccino.com/La_rivista_MC/_I_numeri_del_2 007/MC_n_3__2007_/Gli_articoli/picuccigli_articoli.html
Scarica adobe PDF reader
CSS Valido!
Sito ufficiale della rivista Leonessa e il suo Santo, Edizioni Leonessa e il Suo Santo - Leonessa (Rieti)
Padri Cappuccini Leonessa - Viale F.Crispi, 31 - 02016 Leonessa (Rieti) - e-mail: suosanto@libero.it
copyright 2020 - "Leonessa e il Suo Santo"
Salvo esplicite eccezioni, gli articoli sono liberamente riproducibili citando la fonte "www.leonessaeilsuosanto.it"